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Luca ha un paio di occhiali nuovi di zecca e tutti nel capannello di barboni alla galleria del Corso vorrebbero avere una feroce miopia, un astigmatismo invalidante. Dice che l’oculista che lo vede sempre ciondolare davanti al negozio una sera, a orario di chiusura, gli ha chiesto di entrare. Per un attimo ho pensato che voleva scopare, fa grattandosi una guancia, e invece mi ha visitato, poi mi ha fatto scegliere la montatura e in una settimana eccoli qui, conclude toccandosi un paio di lenti tonde sospese su due sottili fili d’oro. Filantropia, dice alzando le sopracciglia a palpebre socchiuse. È una perversione? Chiede qualcuno, gli altri annuiscono ma stanno tutti pensando a quale ottico aggraziarsi, un po’ rammaricati in fondo di non averne bisogno. Sissi, il più vecchio del gruppo, si continua a grattare gli occhi quasi volesse ficcarseli dentro il cervello.

Alle docce di via Kramer Marika e Otto riescono a fare il gioco delle sillabe in fila indiana senza dover urlare, in attesa di entrare da corso Plebiscito. Tortora. Rampino. Novara. Non valgono le città. Nocca. Case. Sembra esserci meno gente del solito. Meno poveri? Chiede Marika. No, proprio meno gente per strada, fa Otto guardandosi intorno, sta a vedere che il mondo va al contrario e i poveri diminuiscono invece di aumentare. Luca e Kofi escono lavati e pettinati da via Kramer, parlano fitto e camminano veloce come in un film di spie. Si salutano con un cenno del capo al semaforo poi uno prende la piazza e l’altro si perde in un tram.

Paolino non ha mai studiato ingegneria ma lo chiamano tutti l’ingegnere perché sa un sacco di cose, tra le più disparate, tipo quando è stata inventata la forchetta, perché alcune cler sono a nastro e altre a rete, perché via Larga si chiama via Larga. Adesso sta spiegando perché è difficile acchiappare una mosca a due ragazzi che ha trovato fuori da un’agenzia immobiliare. Questi ascoltano divertiti la spiegazione: la visuale a 360 gradi, gli occhi composti da tanti piccoli corpi, le ali già pronte al volo. Loro vedono la stessa immagine più volte capito? Come se tu vedi quell’auto arrivare, loro la vedono tipo cento volte nello stesso momento, come al rallentatore.

L’edicolante dice che tanto qualche giornale invenduto rimane sempre e non fa differenza aspettare il giorno dopo per darglielo, sarebbe comunque invenduto. Però vuole parlare. Dell’inter. Tutte le mattine. Ma Tania vuole solo leggere il giornale e quindi non ci va spesso. Però oggi chissà perché ha voglia di fare due parole. Quando arriva al solito angolo al posto dell’edicola c’è una bicicletta rotta.

Vestito così non sembro neanche povero, pensa tra sé Primo mentre si specchia nelle macchine che si fermano davanti a lui, al semaforo. Ha dei vestiti nuovi che le ha regalato un amico e se non fosse per la faccia gonfia di stanchezza e di sonno si confonderebbe tra le persone che aspettano il tram in piazza Cordusio. I vestiti lui se li lava sempre da sé da quando ha trovato quel pezzo di sapone grosso quanto un sampietrino. Conosce una fontana in un piccolo parco dove l’acqua è pulita e odora di cloro e un terrazzo abbandonato con dei fili di ferro su cui stendere i panni.

Kofi ricorda tutti i marciapiedi della città che buttano aria calda dalle grate. Magari non sa in quale stazione del metrò si trova l’addetto più simpatico ma sui luoghi in cui svernare non lo batte nessuno. Ha anche una discreta conoscenza di portici per le notti di pioggia e zone d’ombra nei parchi per i pomeriggi d’estate. Non è tanto ma c’è chi non sa neanche quello. Son mai stato in viale Ortles, dice a chi gli chiede se conosce qualche ricovero per senza tetto, perché vuoi o non vuoi capitano tutti in quello. È da inizio anno che passa le notti sotto l’arco di un grande edificio davanti ai giardini di Porta Venezia, davanti a una vetrina delle poste, tra due colonne, sotto un lampione spento. Il traffico lo sveglia sempre all’alba ma quel mattino, dopo aver raccolto le sue cose, mentre cammina per le strade deserte l’occhio gli cade sull’orologio di una farmacia: segna mezzogiorno.

L’ingegnere passeggia lungo la stazione centrale. Ha dormito tutto il pomeriggio e si è svegliato alle undici, affamato. Ha lasciato le sue coperte dietro il cancello di un condominio. Gli era sembrato un posto sicuro ma ora teme che gliele possano rubare. Questo pensiero lo accompagna fino all’ingresso della stazione, fino a quando non inizia a chiedersi dove mangiare. Non è raro che i camerieri gli facciano preparare qualcosa con gli avanzi della serata. Un ragazzo che lavora in una rosticceria appena lo vede gli chiede se vuole qualcosa di caldo. Siediti pure che stasera tanto non viene nessuno, gli fa appena torna con un piattino di patatine e crocchette. Una folla di gente carica di bagagli si infila nel corridoio che porta alle rampe mobili, qualcuno la scruta crucciato e si allontana verso gli scaloni di pietra. Settimana scorsa era pure peggio, fa il ragazzo accendendosi una sigaretta.

Marika è allegra all’idea del chakchouka che l’aspetta. C’è un giardino in cui passa spesso le notti e lì davanti un grande albergo in cui lavora Fouad, fa il facchino e sono quasi due mesi che la corteggia, dice lei. L’ultima volta che si sono visti lui le ha detto: sabato sera non lavoro, ti cucino qualcosa che ti piacerà. Marika ha accettato e ora che è sabato è contenta. Al citofono però Fouad le dice che non può farla salire e non può scendere nemmeno. Un suo collega dell’hotel è stato contagiato, hanno messo tutti in quarantena. Marika pensa che sia una scusa e se ne va insultandolo.

Sissi sta per raccogliere un mozzicone da terra quando Luca lo ferma, stringendogli il gomito. Sissi ride, dice che un’associazione gli ha trovato un posto in un ricovero dove se ne starà come un papa e tempo un mese la tosse sarà bella che andata. Poi indica un lenzuolo appeso a un balcone: sopra vi è disegnato un arcobaleno che corona la scritta “andrà tutto bene”.

Davanti al supermercato c’è un serpentone di persone che fuma, chiacchiera, ride, pontifica, sospetta, sobilla, sminuisce. La coda si attorciglia due volte formando tre file e tra fila e fila si rimedia qualche parvenza di normalità su cui rimuginare nel letto, quando il telefono e il pc sono spenti e non si riesce a chiudere occhio. Primo si avvicina a due commesse in pausa. Chiede una sigaretta: una non gli risponde, l’altra gli indica un tabaccaio.

Un’auto con gli abbaglianti accesi gli si para davanti appena ha finito di pisciare. Rumore di sportelli che si aprono e si richiudono. Luca strizza gli occhi cercando di indovinare i volti di quelle due figure che si avvicinano. Documenti e certificazione per cortesia. Luca non li ha, spiega che dorme per strada, è tutto pieno, dice, non c’è un buco. Uno dei due si sfila i guanti di servizio e ne indossa un paio in lattice. Ti dobbiamo fare la multa, fa l’altro. Multa di cosa? Protesta. Non si può stare in giro, c’è un decreto, lo sai sì? Ma se non ho i soldi per mangiare. Dai andiamo in centrale. Quello coi guanti lo prende per un braccio e gli dà uno strattone che lo sposta da quel metro di marciapiede su cui era deciso a stare immobile. Luca sente le gambe tremare, se potesse vomiterebbe il suo stesso cuore. Ascolta i due scambiarsi una battuta divertiti, poi gli dicono di andarsene. Si fanno una risata. Se ne vanno lasciandolo ingobbito nella sua paura.

Il filo a cui sta appeso il paniere, a un metro da terra, si perde in verticale, su una parete zafferano tra balconi e finestre. Sopra vi è un biglietto: “Chi può metta, chi non può prenda”. Dentro ci sono pacchi di pasta, tubetti di maionese, salse, poi un cartone del latte e una confezione di merendine. Tania apre il cartone e fa diverse sorsate, finché non sente male allo stomaco, poi si piega sulle ginocchia, fa un rutto. Quando si rialza prende le merendine e si allontana in fretta dalla via perché si vergogna.

Primo non mangia da circa quattro giorni. L’ultima volta un fornaio gli ha dato due rosette e qualche spicciolo per farsele andare a riempire dal salumiere accanto. A un angolo di strada trova un furgoncino con dei ragazzi in pettorina azzurra che distribuiscono qualcosa, hanno una cartelletta. In fila ci sono due africani e una donna anziana. Si porta davanti a tutti. Ho fame, dice. Intanto c’è una fila, con calma che aiutiamo tutti, e si metta la mascherina. Non ce l’ho. Ecco, dice la ragazza in pettorina azzurra tirandone fuori un paio da un sacchetto, ora ce l’ha.

Marika passeggia per il centro. Ha un paio di mascherine in tasca ma cammina a volto scoperto. Non c’è nessuno per strada, solo qualche camionetta di militari. Si sente in un enorme salotto. Tutto suo. Chiude gli occhi sicura di non urtare nessuno. Li riapre per scoprire se si ritrova dove indovinava di ritrovarsi. Appena vede la scritta “andrà tutto bene” appesa a un balcone le esce dalla bocca un lamento roco che si trasforma in un urlo, un urlo che perfora i muri delle case, lascia una pellicola di unto sulle piante, crea interferenze con le antenne dei ripetitori.

Una ragazza pedala veloce sulla sua bicicletta rossa. Passa dietro una scuola chiusa da settimane, davanti ai piccoli negozi di alimentari con la porta spalancata, scivola sui marciapiedi quando sente il motore di un’auto alle sue spalle. Si ferma al semaforo solo per riprendere fiato. Scatta il rosso e rimane con il naso sospeso, colpita dall’architettura umbertina e angosciante della casa di cura che le sta accanto. È cupa, ha i muri scrostati, le luci fredde al suo interno fanno i vetri delle finestre invisibili. Scatta il verde e la ragazza parte, la catena cigola e un dosso fa trillare il campanello. A sentire quei suoni, Sissi si illude di essere ancora per strada, inizia a convincersi che il materasso su cui è sdraiato sia il prato di un parco. Il suo sfintere si rilassa e uno spruzzo di diarrea gli scalda il pigiama. Due ore dopo un oss constata il decesso e cambia aria alla stanza.

È scappato da un laboratorio, perché è lì che lo hanno creato: in un sotterraneo pulitissimo in Cina, dietro porte antipanico con gli oblò quadrati, che fanno da cornice ai militari che sbirciano gli scienziati in camice bianco senza capire cosa fanno. Si è infilato in un taschino o è rimasto attaccato sotto un’unghia. È scappato così. Invisibile, dice l’ingegnere. Invisibile… ripete. No, no, io gli sto dando una volontà, si corregge, ma lui non ne ha volontà, non ha consapevolezza. Qualcuno gliel’ha data. Qualcuno molto potente lo ha fatto uscire al momento giusto, per sterminarci. Perché siamo troppi su questa terra, diventa difficile controllarci…

Stava nei pipistrelli, fa Luca.

Cosa. I pipistrelli?

Il virus era nei pipistrelli e poi è passato all’uomo. Ma prima era nei pipistrelli… Pi, pi, strello… Che parola però, simpatica.

L’ingegnere lo guarda offeso, non gli piace venire interrotto. Decide di non parlare più, quasi per ripicca: non parlo più, pensa.

Noi esistiamo da milioni di anni, continua Luca, e lui da quanto esiste? Nei pipistrelli, nei pangolini, nei topi, o dove cavolo vive. E non ci siamo mai incontrati, non ce lo abbiamo mai avuto tra i piedi. È come quando conosci qualcuno e gli fai, dove abiti? e lui, abito qui e qui, ed è dietro casa tua. E dici: ma pensa, chissà quante volte ci siamo incrociati senza vederci. Poi inizi a vederlo dappertutto, sempre in mezzo alle scatole te lo ritrovi e così questo qualcuno dal nulla inizia a esistere, come lo avessero inventato solo quando vi siete conosciuti. Lo stesso col virus, chissà quante volte ci è passato accanto e non lo abbiamo visto perché non sapevamo neanche della sua esistenza. Forse per farlo sparire basterebbe un nostro piccolo sforzo di fantasia. Basterebbe fingere che non c’è. Io non lo so come è nato, e non voglio nemmeno parlarne, perché vedi Paolino a me sembra una stronzata questa cosa dei padroni della terra che fanno esperimenti, ma in generale della questione non me ne frega niente perché ormai c’è e dobbiamo conviverci. Basta. Mi importa non incontrarlo. Non lo voglio vedere, né voglio parlarne, non voglio neanche sentirne parlare.

Ma continuo a pensarci, fa dopo un po’ di silenzio, se è stato sulla panchina dove siamo seduti, se ha camminato per queste strade che prima erano solo nostre, se ha dormito nello stesso angolo pisciato dove dormo io. Alla fine anche noi siamo un virus.

Mi fai ridere, commenta l’ingegnere. E poi alzandosi dal cofano della Meriva su cui sono seduti: che fai, vieni con me dalle parti di Farini?

Accanto a loro, sul muro di una piccola ditta edile, c’è una scritta: andrà sempre peggio.

No, dice Luca alzandosi anche lui, ma ti accompagno un pezzo. Poi forse mi fermo, forse no.

Kofi è appena uscito dalle docce di via Kramer. Sente le gambe molli, il naso che gli cola e fa fatica a muovere le dita. Pensa di non essersi asciugato bene perché si sente la schiena bagnata, i capelli umidi. Per un attimo gli passa per la testa di avere i sudori della febbre. Cammina verso il corso sentendosi sempre più fiacco, la salivazione aumenta e i vestiti sono completamente fradici. Davanti a una gelateria perde le scarpe, gli sembra che a ogni passo i piedi entrino di qualche centimetro nel marciapiede. Pochi metri dopo si squaglia completamente, tutto il corpo collassa su sé stesso, la testa cade dentro la camicia e insieme al resto scivola fuori dai vestiti i quali rimangono scomposti e bagnati per terra. Per un attimo non capisce cosa sia successo e sente di annegare. Poi si rilassa. Un cane si specchia dentro di lui e lo annusa. Quando poi si allontana insieme all’ombra di due gambe, Kofi inizia a colare piano in un tombino.

Primo ha finito di stendere i panni sul fil di ferro che dall’antenna di un televisore corre fino al comignolo di un camino. Si tasta il petto alla ricerca di una sigaretta, ne trova mezza ma non ha l’accendino. Sconsolato si affaccia dal terrazzo. Misura a che altezza si trova, saranno trenta metri. Il sole è appena tramontato e le montagne si riescono a vedere nitide. Istintivamente scavalca il parapetto, con un po’ di fatica riesce a mettersi sopra il cornicione, in piedi. Da una finestra dell’edificio davanti si vedono due ragazzi che cucinano. È stata una giornata calda, afosa, ma un soffio di vento adesso gli accarezza le spalle e senza farsi pregare Primo stacca i piedi dall’edificio e piano piano si porta davanti alla finestra dei ragazzi. Che cucinate? Chiede cercando di indovinare gli odori, sospeso per aria. Stiamo facendo una torta, ne vuoi un pezzo? Rispondono loro. Tra quanto è pronta? Almeno mezz’ora. Allora li saluta e segue l’aria dove è più fredda, verso il profilo delle montagne.

L’ingegnere mangiucchia una focaccia che gli hanno dato in una panetteria. È al formaggio e a lui ricorda la Provenza e vacanze di un’altra vita. Ma ora che l’ha finita si sente più assetato che sazio. Gli ha lasciato un’arsura da disperso nel deserto. Inizia la pigra ricerca di una fontanella. Uno scroscio d’acqua lo raggiunge mentre passa davanti a un androne. Il portone è spalancato e il cortile è nascosto da un altro portone, a vetri, geometricamente colorato. Al di là di questo secondo portone viene un rumore d’acqua che lascia immaginare il mare. Paolino guarda se c’è un portiere: non c’è, allora si fa avanti. Il portone è aperto e vi entra: davanti ai suoi occhi trova un comune cortile condominiale. I bidoni della spazzatura sono circondati da un recinto in legno, in un angolo si vede una scala spuntare dall’ombra, una fontanella aperta è proprio accanto al posteggio delle biciclette. L’ingegnere inizia a bere a grandi sorsate. L’acqua è calda e ferrosa.

Ma hai l’acqua in casa e vai a bere quella della fontanella?

Paolino alza lo sguardo. Da un balconcino del primo piano una donna lo sta guardando con sguardo di disapprovazione: dai sali, lo incalza.

L’ingegnere si guarda intorno: c’è solo lui, non può che avercela con lui.

Serena ti muovi? Cosa fai là impalata? Dai che è quasi pronto.

Paolino si guarda le mani, sono piccole e bianche. Sale le scale e trova subito la porta. Entra e dall’altra stanza sente il rumore della televisione, un bambino gli viene incontro con una piccola console dicendogli di aver superato il nono livello. Vai a lavarti le mani, dice la signora che si era affacciata poco prima. L’ingegnere entra nel bagno e si guarda allo specchio: è una bambina po’ sovrappeso, ha i capelli castani raccolti in una coda, è alta circa un metro e quaranta, ha su per giù dodici anni. E non ci trova nulla di strano mentre tiene quelle manine d’avorio sotto il getto tiepido del rubinetto.

Marika ha dei forti dolori addominali. Tanto da fare fatica a camminare. Per strada la gente la evita, potrebbe cadere o peggio cadere addosso a qualcuno. È il periodo pensa lei. Dopo cento metri il dolore è insopportabile, come se ci fosse qualcosa che la graffia dall’interno. Si ferma davanti alla vetrina di un bar, dentro un uomo e una bambina fanno colazione con cornetto e cappuccino. Marika ha un caldo infernale. Si toglie la felpa, poi la maglietta. Rimane a petto nudo a specchiarsi nella vetrina. Per terra ci sono dei cocci di vetro. Ne prende uno e si fa un lungo taglio, dall’inguine fino allo sterno. Una striscia rossa le corre sulla pancia. Lei ci infila le mani dentro e scosta i lembi, per vedere cos’ha, perché sente tanto male. Le sue ovaie sono trasparenti e lasciano intravedere due tartarughine che si sforzano di uscire, boccheggiando girano su sé stesse. Il padre chiama la figlia concentrata sulla sua brioche. Le dice, guarda che bello.

Marika si sveglia. Da una finestra bifora vede il cielo terso. Si alza dal letto e per un attimo non riconosce i tappeti, le pareti rivestite di maioliche, il panorama dell’Egeo. Si stiracchia e va in cucina a farsi un caffè.

Otto e Tania passeggiano intorno al castello. Pensa che bello vivere ai tempi degli Sforza, fa Otto, la città più piccola, senza grattacieli, senza macchine, con quei bei vestiti tutti ricamati.

C’era anche chi andava in giro con gli stracci però.

Sì ma che c’entra? Ti dico che bello vivere bene a quei tempi.

No io preferirei vivere nel futuro, con le macchine volanti e il teletrasporto e la macchina per tornare giovani.

Ma che futuro è? Mica puoi saperlo com’è.

E neanche tu puoi sapere com’era il medioevo.

Io sì, c’è scritto, ci sono i documenti.

Eh va be ma è uguale scusa: sia il medioevo che il futuro sono altre dimensioni da questa.

Ok ma il medioevo lo so com’è il futuro mica sai se va così come dici, magari si ritorna all’età della pietra.

Però con le mascherine.

Però con le mascherine, conferma Otto.

L’asfalto dei viali a quel punto si sgretola davanti ai loro occhi fino a farsi ghiaia, poi ancora fino a diventare solo polvere. L’erba piano piano inizia a restringere le strade fino a farle diventare dei percorsi appena tracciati. I suoni delle auto e dei tram, dei portoni, delle persiane, dei passi spariscono fino a lasciare un silenzio assoluto. Il castello si fa decrepito e sporco e subito dopo inizia a pulirsi, le crepe si riempiono e i ciuffi d’erba rientrano nei mattoni, come se ringiovanisse a vista d’occhio. Poi sparisce anche lui, insieme alle strade e alle case. Un leggero tremolio e la terra si separa, vene d’acqua si diradano intorno a loro. Si guardano intorno spaesati. Non hanno più i vestiti, né i loro sacchetti di plastica. Neanche le mascherine. Sono nudi. Ma non sentono il pudore di coprirsi o nascondersi. Si guardano incuriositi, come se non si fossero mai visti. Tania gli indica un corso d’acqua lì vicino: vatti a guardare. Al guardarsi entrambi sbarrano gli occhi. E adesso?

Quarantine Feelings Project Filippo Ferro

Filippo Ferro

Books collector, writer, milanese.
Pic. by Michael James Daniele